Pugni, sfuriate e psicologia
Se n’è andato Rocco Agostino
Aveva 75 anni ed era un pezzo di storia della boxe, ma a chi gli chiedeva che cosa si provasse
ad essere un monumento dello sport rispondeva che i monumenti sono di marmo e dunque
non hanno né un cuore né un’anima, niente insomma che assomigli a un uomo. “E poidiceva-
le statue si fanno solo ai morti…”. Se ne è andato da poco Rocco Agostino, il grande
manager genovese che aveva accompagnato la crescita e l’esplosione sportiva di tanti
campioni italiani. Rocco era malato da tempo e da dieci anni non si occupava più di boxe, ma
chi ha vissuto da vicino quella fetta di sport italiano che va dai ’60 agli ’80 sa che il suo nome
resterà indissolubilmente legato ai fasti di quella disciplina che a quei tempi ebbe tanto
fulgore quanto ora, invece, è depressa.
Rocco aveva studiato poco (“Sono cresciuto all’università della strada”, amava ripetere) ma
capiva con uno sguardo con chi aveva a che fare. Incontrò la boxe quasi per caso, un giorno
in cui la madre lo spedì in una palestra per convincere il fratello Aldo, più grande di lui, a
lasciar perdere i guantoni. Fu talmente convincente che Aldo non smise e lui, Rocco, si
innamorò di uno sport che avrebbe visto sempre dall’altra parte delle corde, con un
asciugamano in spalla, e in mano la pomata cauterizzante e il ferretto per ridurre i gonfiori.
Aveva 25 anni quando diventò direttore sportivo dell’Accademia pugilistica Bensi di Genova,
30 quando riuscì ad ottenere la licenza di manager, senza peraltro trascurare il suo lavoro di
guidatore di filobus nella sua città. Manager davvero lo diventò sul finire del 1969, quando un
giorno, di ritorno da una trasferta pugilistica a Vienna, non riuscì ad arrivare in tempo per il
suo turno di lavoro: decise allora che la boxe sarebbe diventata la sua unica passione. A
Bogliasco, nella sua mitica Villa Flora, creò un centro pugilistico che ospitava non solo
campioni, ma anche ragazzi di belle speranze. La sua contiguità con i pugili, il suo voler
essere maestro e non solo manager, avevano sviluppato in Rocco qualità di eccellente
psicologo: pur parlando poco, a volte in un italiano perlomeno bizzarro, sapeva entrare come
pochi dentro la testa di un pugile. Così, oltre che gestore di carriere, fu anche un secondo
padre per molti di loro, contenti di farsi urlare dietro insulti irripetibili per un movimento
sbagliato al sacco o per un allenamento disputato con scarsa lena. Ma essendo un papà
buono, sapeva anche perdonare: come quando chiuse un occhio di fronte alla fuga di un
campione per un’avventura galante, quasi alla vigilia di un importante match. Altri avrebbero
fatto fuoco e fiamme, lui invece fece finta di credere che la faccia pesta di sonno fosse il
risultato di un po’ di tensione preagonistica.